L’usanza di preparare bevande alcooliche risale ai Babilonesi; secoli dopo di loro, anche i Greci ed i Romani ne fecero largo uso.
Il sidro, distillato dalle mele; l’idromele, distillato dal miele; il vino e la birra erano così comuni da essere cantati nei loro poemi da illustri letterati dell’antichità come Omero e Platone.
Diffusissima era l’abitudine, dopo la battaglia, di servire ai guerrieri del vino caldo con l’aggiunta di spezie e miele; pare che Alessandro il Grande ne fosse così ghiotto da non finire mai una giornata di “lavoro” senza una solenne “ciucca”.
Ma la storia dei liquori, così come noi li conosciamo, comincia con i Normanni, quando le essenze si imbatterono nell’alcool, bevanda proibita agli Arabi; con l’incontro di questi due ingredienti iniziò la preparazione casalinga dei rosoli.
È il periodo in cui l’alcool viene distillato nei monasteri per mezzo di alambicchi, dove l’infuso d’erbe ed aromi danno vita agli amari cent’erbe a scopo curativo, infusi preparati con piante officinali con l’aggiunta di miele e zucchero, conservati in bottigliette scure con la figura di un monaco cercatore stampigliata sull’etichetta.
Si narra che si deve all’alchimista Paracelso la prima preparazione del “laudano”, una mistura di alcool, melassa di canna ed estratto di papavero, (stillato dall'oppio), destinato, verso la fine dell’ottocento, ad avere una larga diffusione come antidolorifico, in quanto se ne sconoscevano gli effetti collaterali di assuefazione alla droga che conteneva; una vera panacea per tutti i mali insomma, utilizzato da cerusici e dottori per lenire dolori di qualsiasi natura.
Su tutte queste essenze, in Sicilia prevale l’anice; in particolare a Palermo, dove nelle torride estati non poteva mai mancare lo “zammu”; dall’immancabile bottiglietta di concentrato d’anice infatti, venivano versate alcune gocce in un bicchiere ricolmo d’acqua fresca ed offerte all’ospite assetato, così mentr’esse coloravano lievemente l’acqua di una piccola nube lattescente che addolciva il palato, all’olfatto saliva, dolce e pungente, l’odore dell’anice.
L’anice nell’acqua dunque, non era solo una abitudine privata, fino agli anni settanta veniva servita normalmente nei chioschi disposti lungo la via; nella mia casa a Palermo, una foto dei primi del novecento, ritrae un venditore ambulante d’acqua, un Acquaiolo con la sua “carrettella”, sul ripiano della quale campeggia, in mezzo a limoni ed arance per le spremute, la boccetta dal lungo becco di rame ricolma del trasparente nettare all’anice, chiamato per l’appunto “zammù o zambù”, nome derivato in origine dal distillato fatto “chi sciuri e ca simienza ru summaccu”, dai fiori e dai semi del sambuco, del quale è rimasto solo in nome; bisogna infatti aspettare la fine dell’ottocento, prima che si cominci ad adoperare solo i semi dell'anice.
Mia Nonna invece, amava fare un rosolio con i petali di rosa canina, usava un litro di alcool, uno d’acqua, un chilo di zucchero e duecento grammi di petali di rosa canina; metteva i petali in infuso con l’alcool e ve li lasciava per tre giorni; l’alcool permeando i teneri petali ne estraeva l’essenza, a quel punto l’acqua veniva messa a bollire con lo zucchero, e non appena lo assorbiva tutto, ritornando alla sua primitiva trasparente, veniva lasciata raffreddare e quindi amalgamata all’infuso di rosa canina ed alcool, dopodiché filtrata ed imbottigliata nelle classiche antiche bottiglie da rosolio corredate da minuscoli bicchierini damascati d’argento, delle quali io conservo ancora un paio di esemplari; il liquore così ottenuto, assumeva alla fine un delicato colore rosa dal quale prendeva il nome, il “rosolio” per l’appunto.
Solo recentemente a questa antica ricetta sono subentrate delle innumerevoli varianti, ottenute prevalentemente dall’uso di essenze di agrumi, oppure mandorle, citronella od altro; ma la ricetta di base è rimasta essenzialmente inalterata nelle proporzioni.
Il sidro, distillato dalle mele; l’idromele, distillato dal miele; il vino e la birra erano così comuni da essere cantati nei loro poemi da illustri letterati dell’antichità come Omero e Platone.
Diffusissima era l’abitudine, dopo la battaglia, di servire ai guerrieri del vino caldo con l’aggiunta di spezie e miele; pare che Alessandro il Grande ne fosse così ghiotto da non finire mai una giornata di “lavoro” senza una solenne “ciucca”.
Ma la storia dei liquori, così come noi li conosciamo, comincia con i Normanni, quando le essenze si imbatterono nell’alcool, bevanda proibita agli Arabi; con l’incontro di questi due ingredienti iniziò la preparazione casalinga dei rosoli.
È il periodo in cui l’alcool viene distillato nei monasteri per mezzo di alambicchi, dove l’infuso d’erbe ed aromi danno vita agli amari cent’erbe a scopo curativo, infusi preparati con piante officinali con l’aggiunta di miele e zucchero, conservati in bottigliette scure con la figura di un monaco cercatore stampigliata sull’etichetta.
Si narra che si deve all’alchimista Paracelso la prima preparazione del “laudano”, una mistura di alcool, melassa di canna ed estratto di papavero, (stillato dall'oppio), destinato, verso la fine dell’ottocento, ad avere una larga diffusione come antidolorifico, in quanto se ne sconoscevano gli effetti collaterali di assuefazione alla droga che conteneva; una vera panacea per tutti i mali insomma, utilizzato da cerusici e dottori per lenire dolori di qualsiasi natura.
Su tutte queste essenze, in Sicilia prevale l’anice; in particolare a Palermo, dove nelle torride estati non poteva mai mancare lo “zammu”; dall’immancabile bottiglietta di concentrato d’anice infatti, venivano versate alcune gocce in un bicchiere ricolmo d’acqua fresca ed offerte all’ospite assetato, così mentr’esse coloravano lievemente l’acqua di una piccola nube lattescente che addolciva il palato, all’olfatto saliva, dolce e pungente, l’odore dell’anice.
L’anice nell’acqua dunque, non era solo una abitudine privata, fino agli anni settanta veniva servita normalmente nei chioschi disposti lungo la via; nella mia casa a Palermo, una foto dei primi del novecento, ritrae un venditore ambulante d’acqua, un Acquaiolo con la sua “carrettella”, sul ripiano della quale campeggia, in mezzo a limoni ed arance per le spremute, la boccetta dal lungo becco di rame ricolma del trasparente nettare all’anice, chiamato per l’appunto “zammù o zambù”, nome derivato in origine dal distillato fatto “chi sciuri e ca simienza ru summaccu”, dai fiori e dai semi del sambuco, del quale è rimasto solo in nome; bisogna infatti aspettare la fine dell’ottocento, prima che si cominci ad adoperare solo i semi dell'anice.
Mia Nonna invece, amava fare un rosolio con i petali di rosa canina, usava un litro di alcool, uno d’acqua, un chilo di zucchero e duecento grammi di petali di rosa canina; metteva i petali in infuso con l’alcool e ve li lasciava per tre giorni; l’alcool permeando i teneri petali ne estraeva l’essenza, a quel punto l’acqua veniva messa a bollire con lo zucchero, e non appena lo assorbiva tutto, ritornando alla sua primitiva trasparente, veniva lasciata raffreddare e quindi amalgamata all’infuso di rosa canina ed alcool, dopodiché filtrata ed imbottigliata nelle classiche antiche bottiglie da rosolio corredate da minuscoli bicchierini damascati d’argento, delle quali io conservo ancora un paio di esemplari; il liquore così ottenuto, assumeva alla fine un delicato colore rosa dal quale prendeva il nome, il “rosolio” per l’appunto.
Solo recentemente a questa antica ricetta sono subentrate delle innumerevoli varianti, ottenute prevalentemente dall’uso di essenze di agrumi, oppure mandorle, citronella od altro; ma la ricetta di base è rimasta essenzialmente inalterata nelle proporzioni.